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10 - SEROFOBIA

Aggiornamento: 21 ott 2021


Illustration @mehdi_ange_r (INSTAGRAM)

SEROFOBIA.

Una parola divertente e relativamente recente.

Ma cosa significa esattamente? Come si manifesta?

Una delle prime occasioni in cui ho avuto modo di sperimentare su me stesso la sierofobia fu ovviamente relativa alla sfera sentimentale. Ho già avuto l’opportunità nella mia prima storia, “IL DECLINO”, di parlarvi dell’aspetto del rifiuto.


Ci sono diverse varianti sul tema:

  • Chi ti rifiuta senza cercare nemmeno di capire.

  • Chi cerca in vano di mettere da parte i suoi pregiudizi, perché’ l’idea di rifiutare un’atra persona solo per quell’aspetto lo pone di fronte ad un immagine di se stesso che non riesce a tollerare, e alla fine si comporta come un coglione finche’ sei tu a decidere di troncare. E’ la versione peggiore perché chi si comporta in questo modo e’ poco onesto nei tuoi confronti, ma soprattuto nei confronti di se stesso.

  • Chi proprio crede nella sua fobia e intolleranza e lo sottolinea direttamente sulle app di incontri con il tag “Clean guy”. Non c’e’ nemmeno bisogno di dire quanto sia discriminante quel tag, questa stessa persona spesso mostra anche il suo razzismo: “non attratto da asiatici”, “solo c*** grossi e neri”. E infine, e’ anche grassofobico: “solo sportivi”. Per me, per la persona che sono io, questa variante e’ la meno pericolosa. Sfortunatamente, questa tipologia di profili e’ molto comune su app come Grindr. Mi sento anche di dire che e’ l’app stesa che incoraggia la discriminazione. Comunque personalmente non mi sono mai sentito particolarmente offeso, ma e’ importante sottolineare quanto si tratti ti una discriminazione bella e buona, anzi molto banalizzata e disinibita.


Sono spesso stato molto empatico nei confronti di queste situazioni di rifiuto:”mettiti nei suoi panni”, “e’ molto giovane, e’ normale”,”Non ne sa abbastanza”.

Avevo tanto bisogno darmi una spiegazione che non fosse: “questo qua e’ un grande stronzo”

Queste giustificazioni non erano necessariamente molto rilevanti, ma almeno riuscivano a distrarmi dal rifiuto che ricevevo. Cercare di capire l’altra persona e’ quello che ho sempre fatto, anche spesso a scapito di capire di me stesso.


Un’altra occasione in cui ho avuto modo di sperimentare la sierofobia e’ stato dal dentista.


Come credo sappiate, la maggior parte delle volte che vai da uno specialista, ti viene chiesto della tua storia medica, se stai prendendo medicine al momento, e cosi via.

L’anno scorso sono andato in una clinica di una giovane dentista. Non facevo un controllo ai denti da tanto tempo. La dottoressa non mi chiese nulla. E mi dicevo:”dovrei dirglielo se non mi chiede nulla?”. Non lo feci.

La dentista non indossava guanti, ne occhiali protettivi. Ancora una volta mi chiesi:”Dovrei dirlo?”. Non lo feci.

Essendo non rilevabile sapevo che non c’era alcun rischio, ma mi sentivo molto colpevole nel non dire nulle.

Devo ammettere che il piccolo questionario che a volte ti danno da compilare prima della visita e’ estremamente utile in questi casi. Ma non mi era stato dato alcun questionario da compilare, ne’ fatta alcuna domanda.

Poi arrivo il momento di pagare la prestazione. Prese la mia tessera sanitaria:

- “hai una malattia cronica?

  • si, sono sieropositivo, sotto trattamento e con carica virale non rilevabile dall’inizio.

  • Avresti potuto dirmelo

  • Lei non mi ha chiesto nulla”

La dentista che era stata molto gentile fino a quel momento, all’improvviso cambio’. Andai via, con un crampo allo stomaco, pensando che forse avrei dovuto dirlo e che questo mi avrebbe risparmiato l’umiliazione.


Poco dopo le 10 di sera quello stesso giorno, ricevetti una telefonala. Ero al ristorante e intuii di cosa si trattasse. Non risposi. Lo stesso numero mi richiamo’ la mattina dopo:

“salve, sono la dentista di ieri”

  • Buongiorno

  • Ho pensato a quello che e’ successo ieri e sono andata in ospedale per ricevere la tripla terapia di emergenza. Avresti dovuto avvisarmi, avrei preso precauzioni. Puoi mandarmi il risultato del tuo ultimo test?

  • Non ho la versione cartacea, l’ospedale le tiene

  • puoi chiedere di mandartela e inoltrarmela via email? Dopotutto , e’ solo la tua parola, e se e’ vero mi risparmierei un mese di terapia.

Rimasi molto calmo, comunque mi sentivo in colpa dal giorno prima. Avevo probabilmente fatto qualcosa di sbagliato. Dovevo farlo probabilmente. Chiamai l’ospedale e la specialista che mi aveva in cura prese il telefono:

  • “la dentista non ti ha chiesto della tua storia medica?

  • No, ma credo avrei dovuto dirglielo

  • Non capisco perché voglia i tuoi risultati

  • Non indossava i guanti

  • Cosa??? E’ inaccettabile. Dammi il suo nome”


Mi rifiutai. La specialista inizialmente non voleva darmi i risultati, dicendo che erano documenti privati e mi disse che se la dentista avesse fatto bene il suo lavoro, non mi avrebbe messo in questa spiacevole situazione. Le spiegai che la povera ragazza (la dentista) era in preda al panico e che darle i risultati mi avrebbe risparmiato altre telefonate di tarda sera. Alla fine me li diede.

Mi sono sentito molto in colpa per tanto tempo. Non mi era mai successo. Anche il mio otorinolaringoiatra la settimana precedente mi aveva fatto compilare un foglio informativo, e ovviamente io avevo menzionato l’HIV. No, a questo punto non credo di avere alcun motivo per sentirmi in colpa.

Di recente un dentista si e’ rifiutato di farmi una pulizia dei denti. So da altri che purtroppo e’ un episodio abbastanza comune.


Nella mia vita professionale mi e’ successo una volta di avere a che fare con questa indelicatezza.

Quando scoprii di essere sieropositivo, avevo un lavoro nel settore del food e mi piaceva lavorare li’. Ebbi molti alti e bassi durante i primi mesi di trattamento e non credo che i miei presunti responsabili sapessero come gestire la situazione.

Mi fu fatta un offerta di chiusura del contratto, chiedendomi di essere molto discreto e quasi dicendomi che mi stavano facendo un favore….

All’epoca ne soffrii moltissimo. Perché pensai che mi stavano togliendo l’unica attività che mi distraeva.


Ovviamente da allora sono andato avanti, ma dopo quell’episodio non ho mai più parlato a lavoro di questo aspetto della mia vita.

Ne ho parlato in realtà, ma solo quando avevo già dato le dimissioni e firmato un nuovo contratto e principalmente a colleghi che erano diventati amici.


“E’ molto complicato da gestire, non voglio parlarne perché se lo faccio, le persone cominceranno a pensare che sono meno capace di loro”..

E’ una cazzata, lo so.

Ma a volte mi sento stanco, a volte il trattamento mi fa ammalare (ancora oggi può succedere) e devo dire quanto meno possibile quando probabilmente vorrei semplicemente raccontare come stanno le cose.

Francamente, non so nemmeno più cosa voglio, perché mi sono cosi’ tanto abituato a non parlarne per non creare disagio.

Ma e’ anche vero che a volte quando le persone mi dicono: “Wow, hai fatto festa ieri? Sembri stanco….” vorrei rispondere di no e dire che sono andato a letto alle 11 e dormito per 8 ore di fila, ma le mie medicine mi provocano una forte nausea, che mi disidrata fisicamente e psicologicamente.

Ma no, devo sorridere e annuire, perché’ cosi’ e’ più semplice.


Tutte quei piccoli episodi che succedono, quelle piccole frasi dette, quelle non dette, mi fanno male.

Mi hanno fatto terribilmente male.

Nell’intervista che ho rilasciato a Têtu, sull’editing, c’e’ il ritratto di una donna che dice: “non capisco perché si rifiuti la persona, e’ la malattia che dovrebbe essere rifiutata, non l’essere umano. E’ cosi che va alla fine. Una doppia punizione”


Io sono malato, prendo medicine ogni giorno per star bene e come se non bastasse devo anche soffrire l’ignoranza degli altri. A che punto mi chiedono se sto davvero bene? In che momento riconquisterò il mio posto al centro della mia vita e smetterò di dimenticarmi di me stesso a favore degli altri?


Questo e’ quello che sto facendo adesso.


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